Praga

 

TELEMPATÌA

Vedere ai raggi X i corpi di due persone che si abbracciano è stupefacente: i cuori sono vicinissimi, a pochi centimetri di carne e ossa l’uno dall’altro; la pressione sanguigna rallenta e accelera il buonumore.

Oggi c’è da mordersi la lingua prima di dire distare così vicini, il distanziamento sociale è legge e a scuola non lo si potrebbe certo rispettare: si possono tirare fuori le ipotesi più assurde, dal “metà a casa metà in classe” al “ricreazioni in aula” ma niente funzionerà davvero. Scuola è farmi una bella salita a piedi o con la navetta per arrivare alla sede. Scuola sono le chiacchierate con i miei amici davanti alle porte d’ingresso, quando piove e stiamo accalcati e tutti stretti per non bagnarci troppo. Scuola è entrare in classe il primo giorno correndo per impadronirsi dell’ultima fila. Scuola sono le bucce dei mandarini mangiati in una pausa e messe sui termosifoni per riempire l’ambiente di un intenso gradevole aroma. Scuola è il “posso uscire prof? È urgente!” quando sto morendo di noia e offrirmi prontamente per andare a prendere dei gessetti nuovi. Scuola sono i consigli della bidella e i bigliettini nascosti ovunque che violano le leggi della fisica e della geometria. Scuola sono le risate con il mio gruppo, sono le gite e le giornate in laboratorio, gli ascolti in lingua straniera con uno stereo più simile a un pezzo da museo e i ricevimenti, sono gli ultimi giorni in cui si vedono più film che alla Notte degli Oscar e il caldo rovente di fine anno, puntualmente accompagnato da gavettoni e altri scherzi. Niente di riproducibile da nessun maxischermo cinematografico, figuriamoci da un computer o da uno smartphone.

Rientravamo da una settimana di gita quel sabato 22 febbraio. Avevamo ancora i pensieri in piazza dell’orologio a Praga ma già la scuola ci richiamava al nostro dovere di maturandi: è stato tutto piuttosto normale, senza particolari stravolgimenti; poi, la domenica, è arrivato l’annuncio. La Scuola avrebbe chiuso.

Tante cose avevo immaginato nelle prime settimane di settembre ma mai avrei creduto che il mio ultimo giorno di scuola sarebbe stato a febbraio, senza che io me ne accorgessi, senza che potessi dare un’ultima carezza al mio banco o alla porta dell’aula. Se lo avessi saputo prima avrei prestato più attenzione, avrei gustato ogni attimo cercando di imprimerlo nella mia memoria, tenendo stretto ogni secondo per non lasciarmelo portare via dal tempo inesorabile.

Non ci sarà nessuna notte prima degli esami. Niente servizi al Tg sulle tracce del tema e neanche amici o famiglie intere a vedere la prova orale. Niente fiori e niente brindisi. Mancanze in più che si vanno a sommare alle tante altre di una generazione persa nel grande mare della vita.

 

Ascoltare Vasco mi è servito a qualcosa: “Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha”. Ho cercato di dare un senso a tutto questo, di trovare un perché alla situazione attuale, ma non ci sono riuscita. A volte la vita va presa come viene, cercando di tirare fuori il meglio dal cilindro; e noi il nostro meglio lo abbiamo davvero dato.

Alla faccia tosta di chi ci dava degli sfaticati, di chi diceva che siamo solo degli svogliati che si fanno mantenere, dei ragazzini viziati pieni di arie.

Che la didattica a distanza abbia funzionato, almeno nella maggior parte dei casi, è sicuro. Sul come ci sono più dubbi: problemi di connessione, linee che saltano, dispositivi privati che sono stati messi a disposizione da tutti (studenti, insegnanti, personale) per far funzionare l’apparato scolastico. Ognuno ha fatto e dato quanto poteva ma una cosa è certa: noi ragazzi abbiamo dato tutto quello che avevamo per la scuola. Abbiamo usato la nostra rete domestica, i nostri cellulari, abbiamo studiato da soli svariati argomenti e abbiamo aiutato professori e compagni. Ce l’abbiamo messa tutta perché in fin dei conti vogliamo bene alla scuola, quella stessa scuola in cui abbiano passato metà di ogni nostra giornata e più di dieci anni di vita; quella scuola che era una seconda casa e la classe una seconda famiglia. Per certi versi la scuola si è fatta più intima, in tutti quei momenti in cui fratelli e genitori passano dietro la telecamera o urlano, creando situazioni imbarazzanti; è entrata nella nostra quotidianità e ci accompagna mentre ci laviamo i denti, facciamo colazione o mentre ce ne stiamo sdraiati sul divano col pigiama addosso e un senso di smarrimento negli occhi.

Quello che ci è capitato non è giusto, meritavamo molto di più; d’altronde, però, la pandemia ha tolto a tutti qualcosa: è un momento storico e, come tutti i grandi passaggi della Storia, esige un sacrificio da parte di ognuno di noi. Stiamo soffrendo ed è terribile ma purtroppo la realtà si palesa dritta e spietata davanti a noi: non possiamo farci niente, possiamo solo scegliere di imparare qualcosa.

Non possiamo permetterci mai di dare le piccole cose per scontate perché possiamo perderle in un batter d’occhio; il reale è più importante del virtuale e i sentimenti sono più importanti degli oggetti.

E poi, per quanto le persone abbiano un certo gusto per il melanconico e il tragico, dobbiamo accettare che siamo migliori di quanto pensiamo e valiamo più di quel che siamo disposti a credere.

 

 

Sonia Agnesi

 

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