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Ricordi di una vecchia Bologna: “Il vecchio canale di Reno”

Del vecchio canale di Reno ben poco è rimasto. Coperti i tratti più caratteristici
(via Riva di Reno, via della Grada) del corso d’acqua, che ebbe importanza vitale
per l’economia cittadina, è rimasto solo il ricordo. L’acqua del canale di Reno,
fino alla metà dell’Ottocento, costituì l’unica forza motrice a disposizione degli opifici.

La sua corrente trascinava le grandi ruote che azionavano i rudimentali
macchinari delle filande, delle segherie, dei conciatori di pelli. Ma l’acqua era
indispensabile anche alle lavandaie che facevano siepe lungo le rive del canale e
ai giovani bagnanti che nelle afose giornate estive cercavano refrigerio nelle
acque non sempre limpide. Le lavandaie.
«Nella stagione invernale, addossati ai muraglioni interni — scrive Alessandro
Cervellati nel quarto volume di “Bologna al microscopio” — venivano costruiti
alcuni casotti in legno lunghi e bassi, sotto i quali si svolgeva il lavoro delle lavatrici,
ma in primavera i casotti venivano smontati e le lavandaie lavoravano di nuovo
all’aperto.  Spingendosi fino in via della Grada, a fior d’acqua, sui bordi formati da
teorie di pietre levigate e inclinate, lavoravano e chiacchieravano.
Colpivano l’occhio dei passanti i loro abiti a colori vivaci, la biancheria agitata
nell’acqua e battuta sulle pietre, lo sventolio delle vaste lenzuola messe ad
asciugare sulle corde che attraversavano la strada congiungendo le case.
Non era raro poi ascoltare il canto di qualche lavandaia innamorata, il racconto inframmezzato da risate su qualche pettegolezzo o i commenti sulle rappresentazioni all’Arena del Sole, alle quali le lavandaie erano spettatrici d’obbligo alla recinta
diurna del lunedì.
Tutto questo aspetto colorito era talmente pittoresco e nel medesimo tempo intimo e raccolto da sembrare impossibile nel cuore della città».

Stando a una poesia di Raffaele Bonzi, lo spettacolo delle lavandaie al lavoro
doveva essere assai piacevole e tanti giovanotti sostavano accanto alla spalletta
del canale per ammirarle. E conoscendo la facilità di parola di queste giovani
popolane si può bene immaginare il botta e risposta che si intrecciava fra i
maliziosi ammiratori e le smaliziate lavandaie. Le acque del Reno non sempre
erano limpide e non sempre da esse si levavano profumi gradevoli; eppure il
vecchio canale aveva una sua poesia.

Il canale era fulcro della vita cittadina anche per chi come Giovanni Pascoli,
studente a Bologna afflitto dall’indigenza, meditò il suicidio sulle sponde del
canale di Reno.
Punti nodali della via d’acqua erano la vecchia «Sèiga da l’acqua» e al «Pònt dla
Saiga», con al « batocc’» nel quale, con un soldo, si poteva fare bucato. Durante
l’estate il canale di Reno si trasformava nella piscina di Bologna. Vi si tuffavano, a
volte in costume adamitico, i ragazzi dei quartieri popolari, attentissimi che non
arrivassero i vigili urbani, soprannominati le «pulle», altrimenti era una multa
sicura. Al loro apparire, improvviso il grido di allarme lacerava l’aria e tutti
fuggivano. C’era chi cercava di infilarsi, correndo, i calzoni, chi, invece, preferiva
rifugiarsi sotto un ponte ove restava nascosto in attesa che il vigile se ne andasse.
Ma la «pulla», che conosceva il trucco, a volte si tratteneva lì in attesa per due o
tre ore mentre i nuotatori si maceravano nell’acqua.

Finalmente, allontanatosi il vigile, potevano uscire e andavano a riscaldarsi con un
buon bicchiere di vino all’osteria del Salvataggio, così chiamata perché una volta
vi portavano chi era caduto nel canale. Accadeva spesso infatti che qualcuno
finisse in acqua e allora risuonava il grido: al soccorso, al soccorso. Ed era un
accorrere, una gara nel gettarsi nella corrente, non tanto per generoso impulso,
quanto perché a chi si rendeva protagonista di un salvataggio le autorità
assegnavano un premio di dodici lire. A volte però accadeva che qualcuno si
gettasse nel canale d’accordo con il salvatore e che il compenso venisse diviso a
metà. Ma nel canale di Reno non c’erano soltanto i nuotatori. Gareggiavano anche
i ciclisti, i quali si cimentavano in una gara che neppure Anquetil o Nencini
avrebbero mai osato disputare, la corsa sulla spalletta. I concorrenti salivano sul
muretto del canale, spiccavano una gran volata e vinceva chi percorreva il tratto
più lungo prima di cadere in acqua.
Oggi tutto ciò non è più possibile perché il canale è stato coperto.
La città aveva bisogno di strade più larghe, di spazio ma per molti la gettata di
cemento armato che ricopre il vecchio corso d’acqua ha prodotto tanta malinconia.
Con il canale se n’è andato anche un pezzetto della loro gioventù.

Lamberto Bertozzi

ph. da “Collezione di Luca e Lamberto Bertozzi”

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