Il sole all’improvviso sparì.

Tra le foglie di faggi e aceri il cielo sopra di noi era azzurro, ma sulla Riva nuvole grigie scuro coprivano il sole cominciando a farmi dubitare di un arrivo a casa asciutti.

Ma noi eravamo immersi nel bosco, il sentiero era pulito, aperto e bellissimo, un sentiero antico quello dell’Acerone come testimonia la vecchia carrabile ancora visibile in fondo, poco prima del ponticino che attraversa il RioRí. Un sentiero devozionale, con una via crucis scolpita nella pietra in 14 pilastrini che dal basso arrivano fino a quasi al Santuario, realizzati da uno scultore e commissionato da un uomo di Gaggio Montano miracolosamente e misteriosamente guarito probabilmente nell’andare verso Madonna dell’Acero.

“Papà papà un porcino! No cavolo è rosso! Papà papà un altro lí, no è rosso anche questo e anche quello, e anche quello. Cavolo son tutti rossi, basta io non cerco più e voi che siete voluti venire giù di qua mi avete fatto perdere quelli che stamattina avevo coperto per prenderli al ritorno!”

Federico era alterato, tutta mattina che si guardava in giro, i pochi buoni che aveva trovato al mattino sul lungo Dardagna li aveva meticolosamente coperti per recuperarli al ritorno, ma l’itinerario era cambiato e da quel punto non saremmo più passati.

“Fede dove ci sono i Rossi ci sono anche i buoni, ma comunque non possiamo raccoglierli, non abbiamo il tesserino.”

“A parte che se li saranno presi già tutti stamattina, guarda quanti ce ne sono staccati, poi se tu trovi un bel porcino lo lasci lí, non ci credo neanche!”

La mattina il sentiero dell’Acerone, e i boschi vicini, dovevano brulicare di fungaioli più o meno esperti. Le foglie smosse erano segni evidenti del loro passaggio. Non potevano essere stati cinghiali, anche se a volte i cinghiali sanno essere più delicati di certi umani.

Federico decise di non guardare più e si avvicinò agli altri che cominciavano ad essere preoccupati per il repentino cambio di meteo. Li tranquillizzavo ma non ci credevo neanche io, se non ci muovevamo avremmo preso un bel battello d’acqua.

Scendevamo rimanendo incantati dalla bellezza del sentiero e contando i pilastrini della Via crucis che via via si susseguivano. Ad un certo punto notavo sulla mia sinistra un bel boschetto, spianava all’improvviso e si apriva ancora di più. Mi ispirava tanto per trovare dei bei porcini, mi ci buttai dentro con la scusa, vera, di smaltire anche due gocce di birra.

La sensazione che ho sempre avuto, e che ho ancora, quando vado a funghi e un po’ la stessa di quando compro un Gratta e vinci. Se esco con l’intenzione di comprarlo non vinco mai, se esco e lo compro per caso passando davanti ad una tabaccheria o ad un bar, almeno il biglietto mi capita di rivincerlo. A funghi uguale, se esco per cercarli ne trovo due dopo ore e ore di cammino, se vado a fare un giro nel bosco con la reflex al collo qualcosa per caso trovo sempre.

Guardavo il bosco era bellissimo, molto battuto, molto smosso, il pensiero che facevo era che non avrei trovato niente, poco tempo e troppa gente passata in mattinata.

Mi appartai in un angolino poco prima che la spianata si buttasse di nuovo verso il Dardagna per smaltire le due gocce di birra. Mentre smaltivo buttai l’occhio sulla mia destra. Da sotto una radice, alzando le foglie, una meravigliosa cappella marrone usciva all’aria fresca. Non poteva essere rosso, non poteva. Non lo era.

Presi il cellulare e lo fotografai, pensando a quello che mi aveva detto Federico. Non potevo contraddirmi, non lo avrei raccolto.

Raggiunsi i ragazzi nel sentiero, erano scesi abbastanza mentre cominciava a tuonare con insistenza.

Gli raccontai il mio ritrovamento, Federico mi blocco subito:

“Fammelo vedere.”

“Non l’ho preso, veramente!”

“Impossibile, senti che odore fa il tuo zaino.”

“Mi sarà rimasto addosso dal bosco “

Federico mi guardava con un ghigno tra il satanico e il divertito proprio mentre attraversavamo il ponte e davanti a noi il sentiero proseguiva impennandosi all’insù.

Mi guardarono tutti con un’aria cattiva che il temporale che montava sopra le nostre testa non era niente.

“Finisce subito, li dietro alla curva torna a scendere.”

Non sapevo quello che dicevo ma per fortuna ci presi.

Il sentiero dell’Acerone lo avevo fatto solo una volta, molti anni prima, non lo ricordavo così bello e caratteristico, ma ricordavo le case alla sua fine prima di risalire per tornare sulla provinciale a Cà Berna. La prima completamente immersa nel bosco con il Rio accanto il tavolone in legno, il forno a legna e il barbecue, la seconda più avanti, in sasso, bella e tipica, vera casa di montagna.

Lungo la stradina sterrata un orgoglio di bolognesità diceva che la montagna era ancora nostra e non completamente colonizzata dai Toscani. “Va Adesi”, “va pianen”, due cartelli a lato strada rivolti a chi passava di lì in auto, ma ancor più a chi si avventurava in bici lungo il sentiero devozionale per dirgli di fare attenzione, che le case erano abitate, e i viandanti non di rado camminavo lungo il sentiero.

Il nuvolo era adesso sulle nostre teste, sulla provinciale il traffico a scendere era intenso, una fila di macchina che lentamente andavano verso Vidiciatico. Sembravano scappare dalle cime e i tuoni che rimbombavano nel cielo facevano capire il perché.

“Prenderemo l’acqua sei contento?”

“La prenderemo sí, guarda una fontana Elisabetta ho una sete.”

Alla fontana di Cà Berna riempimmo per l’ultima volta la bottiglia. Eravamo quasi arrivati, la stanchezza cominciava a farsi sentire anche in noi grandi, i due piccoli non sembravano soffrire molto, ma la quasi ex bambina non mancava di far sentire il suo malcontento.

“Se non ci muoviamo la prenderemo tutta veramente.”

“Dobbiamo pure correre, te lo scordi!”

Cominciai a raccontare la storia di Cà Berna, ultimo borgo abitato del Comune di Lizzano in Belvedere, primo che incontrarono i Nazisti a scendere verso Valle. Raccontai della strage, spiegando cosa era il monumento che vedevano al di là della strada.

Parlavo, parlavo da solo, non correvano ma si erano già incamminati. E cominciò a piovere.

Al Torlaino la pioggia scendeva insistente, non avevamo ombrelli, solo le felpe a coprirci, le felpe e i castagni, e riuscimmo a non bagnarci.

Arrivati a casa eravamo quasi asciutti.

Aprii la porta e i ragazzi corsero verso la camera a recuperare i cellulari che erano stati costretti a lasciare a casa.

Lele però si fermò:

“Ma quindi quanti chilometri abbiamo fatto oggi?”

“Quasi 16, siete stati bravi, nonostante tutto.”

“Tanto roba! Oh ragazzi avete sentito abbiamo fatto quasi 16 chilometri!”

“Ah però dai siamo stati bravi!” disse Federico.

“Che schifo.” Disse Elisabetta.

Dovevamo fare andata e ritorno lungo il fiume alla fine venne fuori un anello d’argento intorno alle Cascate, ai castagni, agli aceri e ai faggi del Corno.

I ragazzi erano stati bravi, nonostante tutte le lamentele si erano goduti un po’ di aria sana e il profumo del bosco, ammirando particolari di cui forse non sapevano neanche l’esistenza. La speranza era, ed è tuttora, che questa sfacchinata negli anni gli torni in mente come una bella esperienza, la prima magari di tante. Una speranza fievole, ma che dice che prima o poi, pensando a questa giornata, un sorriso nascerà sui loro visi.

Il giorno dopo mentre nuotavamo in piscina chiesi ai due maschi quale era stato il momento più bello della giornata.

All’unisono risposero:

“La pizza ieri sera al Pergolino!”

“E la tua?”

“Le tagliatelle che mangeremo stasera con il porcino che non ho raccolto….”

 

Foto di Enrico Pasini

 

 

 

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