CICLOTURISMO: 40 anni in bici, 40 anni di Corno alle Scale

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La strada verso Madonna dell’Acero

Era il 2004 e il Giro arrivava al Corno Alle Scale. Un giovane Alessandro Fabbretti in moto descriveva l’inizio della salita da Rio Rí come una meravigliosa entrata in una galleria fatta di alberi, salita vera in un paesaggio meraviglioso.

Per i miei 40 anni mi sono regalato un giorno di ferie e un giro in bici lungo quanto le ore che dovevo lavorare.

Duecento chilometri e al centro la mia montagna. Il Corno alle Scale, quella terra che i miei genitori han fatto diventare mia a neanche un mese di nascita, tra le querce di Cà Corrieri e le proprietà dei vari Poli.

Un giro che ha percorso dei pezzi della mia vita come la vecchia Bazzanese, PonteRonca-Riale, mie residenze e anche la mia squadra di calcio, il PonteRoncaRiale, poi diventata Iperzola, arrivata fino alla C2 e poi sparita.

Ceretolo e la Ceretolese, la mia squadra giovanile di ciclismo e la Porrettana, vecchia strada di allenamento, SanBiagio con il circuito della Ceretolese ma soprattutto con la Bottega di Paolo Malini, meta fissa per l’inizio di infiniti weekend in bici e luogo da dove sono nate idee talmente strambe che alla fine, nel loro piccolo, sono diventate storia.

La Porrettana, i suoi strappi così allenanti lungo il placido scorrere del Reno. La Porrettana e i suoi bivi come quello di Pioppe per arrivare a Salvaro, luogo di nascita di parte della mia famiglia, i Moruzzi, e luogo dove i nonni riposano in pace in cima a quel cimitero, raggiunto i primi Natali dopo la morte della nonna, con una rosa legata al cannone della bici, un luogo che per me è sempre stato sinonimo di pace infinita.

La Porrettana, strada storica, prima unione, forse imperfetta e per questo così bella e italiana, tra Emilia e Toscana.

Da Riola l’alto Appennino si mostra in tutta la sua bellezza, per chi ha vista anche la Croce del Corno illumina la sua vista.

Il Corno da Riola

Nei viaggi verso la Cà io non la vedevo mai, mio padre sempre. Io non la vedo ancora, nonostante gli occhiali e lo zoom, ma è vero, se hai vista l’ammiri anche da Riola.

Quella Croce non può essere meta per un giro in bici da corsa, ma rimane obbiettivo poco sotto, con l’arrivo alle Polle a quasi 1600 metri di quota. Come al Giro d’Italia del 2004, anzi anche qualche metro più su.

La vedi sempre, o per lo meno vedi la punta di roccia dove è stata incastonata nel lontano 83, Punta Sofia.

Io c’ero, in spalla a mio padre, quando l’elicottero arrivò e con non poca fatica riuscì a posarla, il circolo glaciale e le piste erano uno stadio ricolmo di gente, alcuna anche poco rispettosa della montagna e punita da vipere che non potevano capire quella festa. Una festa che vinse la devastazione di qualche singolo idiota, che con fatica inutile salí per segare la vecchia croce e buttarla in Segavecchia.

La Croce la vedi sempre fino alle Borre, poi il Pizzo e il Grande la coprono, la nascondono, e lasciano davanti Lizzano e Vidiciatico come meta intermedia per raggiungere la vetta. Un giro tondo intorno al Corno che rende la scalata ciclistica ancora più lunga ed epica.

 Il Corno dalle Borre

La Cà ultima occasione di riposo. Ultimi nove chilometri, ultimo centro abitato, ultima occasione per fermarsi, e quante volte l’ho fatto fermandomi a casa desistendo la scalata.

La Pandemia rende deserti, anche in tempi di festa, i monti, e per me i sentimenti sono contrastanti.

Così mistici e affascinanti vuoti, ma anche così tristi, io bambino, io ragazzino, io ragazzo, io uomo, sempre in compagnia di qualche amico, modenese, bolognese, fiorentino, pratese, Centese, Riminese, Montruccio, pistoiese o senese. LaCá vero punto di incontro tra le più belle e divertiteti culture italiche.

A salire in quella galleria di alberi, profumata ancora di inverno, con la primavera che arriva nei ruscelli colmi di acqua ghiacciata che libera dal ghiaccio canta la sua felicità, arrivo in cima, la Croce la vedo, mi saluta e mi da la forza per superare i muri di neve che mi conducono fino alle piste, ancora battute dai pochi agonisti che hanno avuto il privilegio di poterle sciare.

Verso il Cavone

Farnè, l’acqua alla fontana e lo strappo tra Crudeli e Vescovi, bello e stronzo come un modello che se la tira troppo. Ma al contrario, per salire verso il Corno, è anche peggio.

Verso Fanano e Sestola, con il Corno che mostra il suo profilo piccolo, con l’idea di Canevare, Cimoncino e Pian Cavallaro che la saggezza della nuova età mi porta ad accantonare.

 Il Corno visto tra Fanano e Sestola

Il fondovalle degli allenamenti invernali con Loris e il Bike Studio, scendendo da Poggioraso per Trentino e veloce con il vento a favore fino alla Docciola, e contro fino a Marano, a tagliare le speranze di altre salite e più dislivello.

 

Castello di Serravalle

Castello di Serravalle, confine tra Bologna e Modena, un vecchio comune divenuto municipio, e poi Zappolino, prima salita verso l’Appennino, inconquistabile per i modenesi che lasciarono stare il castello e preferirono passare avanti e rubare una Secchia in un pozzo in via Saffi a Bologna. Scapparono da Zappolino come Scapparono da Bologna.

Casa, dopo otto ore e un quarto d’ora di straordinario.

Duecento chilometri tondi senza arrivare in cima alla chiesa che sta scrivendo la stessa storia del vecchio castello, distrutta e abbandonata da un terremoto.

Zappolino, Ponte Ronca, Zola, Riale, La Cà.

Son già passati quarant’anni, speriamo ne passino, almeno, altri quaranta.

 

foto di Enrico Pasini

 

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