Da Castelletto ad un lungo Bacio.

Quanto può essere lunga una strada?

Se lo era chiesto guardando via Volta precipitare tra le viti e non si era riuscito a dare una risposta.

Si accorse arrivato sul fiume che una strada seppur corta può essere infinita, come quei venerdì al lavoro, verso le 16, che più guardi l’orologio e meno le lancette si muovono. Devi uscire alle 17, ma da ore restano le 16.

L’avevano già fatto diverse volte il lungo fiume del Rio Orsello dalla parte del campo, mentre dalla strada era la prima volta e forse sarebbe stata anche l’ultima.

Più si avvicinavano alla trattoria più sembrava si allontanasse. L’asfalto crea allucinazioni, frena, rallenta incolla, intrappola il cammino in una monotonia da cui, o scappi in fretta, oppure ne resti inghiottito.

La bottiglia dell’acqua era ormai vuota, ma loro desideravano solo una cosa, una fresca bionda e briosa birra media, unico ristoro che gli serviva per completare il giro con l’ultimo tratto che mancava.

La trattoria si fece sempre più grande, nonostante tre passi sembrassero uno arrivarono nel retro bottega, girarono l’angolo per entrare e si immobilizzarono.

Lunedì turno di riposo, chiuso.

Tutto potevano immaginare tranne che dopo due mesi di quarantena fosse rispettato il giorno di riposo.

Ma alla fine era giusto così, era anche quello un modo per tornare ad un’apparente normalità.

Avviliti, stanchi e assetati, attraversarono il ponte e scesero lungo la piana di Sant’Appollinare dirigendosi verso la chiesa.

Quella piana per loro era sempre rilassante, quella Chiesa, da dovunque la guardassero, era sempre portatrice di pace. Pensarono che solo un’ora prima l’avevano vista dall’alto di via Volta e ora erano a pochi metri da lei. Si motivarono a quel pensiero, e guardarono verso quella strada.

Gli parve di vedere un cuore, anzi due. Un campo, con al centro un piccolo boschetto, racchiudeva due cuori nel loro confine. Rimasero ammaliati da quella visione, ammaliati e sempre più innamorati.

Passarono accanto alla chiesa, si fecero un segno di croce, e presero la stradina verso Castelletto.

Arrivarono al campo da basket, la fontana l’avevano sempre trovata chiusa, con disperazione lui si avvicinò e provò ad aprirla. Un bel getto  sgorgò fuori e continuò a sgorgare. Ci si buttò sotto con la testa. Tutto era tranne che fresca, ma la sete era tanta e con ancora un po’ di quella in bottiglia riuscirono ad irrigare il deserto che si era creato in gola.

Attraversarono Castelletto, in piazza alcuni bambini giocavano tra di loro incuranti delle restrizioni ancora in essere, il paese stava riprendendo colore e vita, a dargli forza e voce quei ragazzi che più di tutti avevano dovuto rinunciare al loro tempo, un tempo che non sarebbe tornato mai più. Se lo stavano andando a riprendere e nessuno, nemmeno i Carabinieri, avevano il coraggio di fermarli. Lei si ricordò di quel giorno di Aprile in cui si recò in farmacia, si ricordò del paese deserto, della nuova piazza, vuota, silenziosa, grigia, addormentata in un letargo tardivo di inizio primavera che terminava alle porte dell’estate. Non lo diede a vedere ma si commosse, strinse forte il braccio del suo compagno, guardò dritto davanti a lei e vide il bar aperto.

Lo guardò e sorrise, un sorriso tenero e fresco come la birra che finalmente rinfrescò i loro corpi.

Si alzarono rivitalizzati dal tavolino del Bar e si incamminarono sicuri verso Ziribega. Mancava l’ultimo pezzo, scendere alla Bersagliera e salire da Via Paradiso per arrivare, tramite il calanco, in via Merlino a Zappolino.

Lui faceva strada contromano nella stretta banchina che da Ziribega scendeva verso Bersagliera. Non si spiegava come fosse possibile negli anni non aver pensato ad una via per i pedoni. Castelletto, come Zappolino e le frazioni che vanno a Savigno, sono senza alcun spazio per chi non vuole usare la macchina ma vuole muoversi liberamente con le proprie gambe.

Non si spiegava il perché in mezzo a tanto verde non si pensasse anche a chi camminava.

Arrivarono in Via Paradiso velocemente ma provati dalla velocità incosciente di troppi automobilisti che prendono il drittone verso Ziribega come una pista da Formula uno.

Salirono costeggiando la vecchia fornace e i giardini fioriti delle villette a lato strada. Nessuna auto li disturbò nel salire a Cà Bosco. Presero il tratto che portava al ristorante di petto, salutando la Madonnina tra i fiori e le rocce del muro di cinta. Imboccarono la strada sterrata dopo aver annusato l’odore di resina e funghi che il bosco emanava, esaltando ancor di più lo splendido casolare ora adibito a Ristorante e Bed and Breakfast.

Preso il sentiero verso il calanco si trovarono al sole, ma era un sole gentile, accompagnato da un’aria Primaverile perfetta per il cammino che lì stava annerendo come pane lasciato in forno qualche minuto in più. Poco sotto il calanco tornarono a vedere la chiesa di Zappolino. Lì erano partiti, sotto le mura del vecchio castello e li dovevano arrivare, all’ombra del campanile fermo alle 11 di mattina ma preciso nei suoi rintocchi.

Superarono il primo tratto di calanco, passarono accanto al vecchio camion arrugginito, ormai era diventato un monumento all’uomo conquistatore della natura, con la Natura che invece si va a prendere il mal tolto. Scesero e risalirono verso Via Merlino, tra i Ciliegi che cominciavano a riempirsi di rossi e profumati frutti.

Attraversarono il podere Colombara, affrontando i poco coraggiosi cagnoni, e si ritrovarono in poco tempo davanti alle vecchie scuole del borgo. Salutarono il signore del negozio e salirono alla Chiesa. Toccarono la porta e si guardarono negli occhi.

Avevano fatto più di 20 km, avevano completato un anello camminando intorno alla loro terra, tra vigne, Ciliegi, vecchi borghi e antichi calanchi.

Si parlavano guardandosi negli occhi, il loro guardarsi faceva rumore.

Ora erano pronti per portare a compimento il loro voto.

Cominciarono a baciarsi e non ricordano ancora quando smisero.

 

Foto di Enrico Pasini

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